Della classe 5C
Oggi vi portiamo dentro una realtà che spesso resta ai margini della nostra attenzione: quella del carcere. Un mondo fatto di silenzi, errori, ma anche di possibilità, ascolto e rinascita.
Venerdì 11 aprile, abbiamo avuto l’opportunità di conoscere da vicino la Casa Circondariale di Vicenza e le storie di chi la vive ogni giorno. Nulla, però, può davvero prepararti all’impatto che si prova quando si attraversano quei cancelli. È come entrare in una dimensione sospesa, dove il tempo sembra essersi fermato e ogni cosa parla di distanza dalla vita esterna.
La struttura ospita prevalentemente persone in attesa di giudizio o con pene inferiori ai cinque anni. È divisa in tre settori distinti: detenuti comuni, alta sicurezza e collaboratori di giustizia. Ogni area ha le proprie regole, i propri ritmi, il proprio grado di sorveglianza. Ma ciò che colpisce è l’atmosfera: corridoi lunghi e stretti, pareti spoglie, finestre piccole che lasciano passare a fatica la luce. Il rumore assordante delle sbarre percorse col manganello, delle pesanti porte che si chiudono, delle chiavi che tintinnano, dei passi ritmati delle guardie, diventa parte di un sottofondo costante e indelebile.
In questo contesto rigido e carico di tensione, esistono tuttavia spazi che provano a offrire un minimo di normalità: una piccola chiesa, una biblioteca collegata al circuito cittadino, una sala per attività teatrali e un emporio interno, accessibile solo a chi può permetterselo. Tentativi di mantenere un filo con il mondo là fuori, anche se spesso fragile, insufficiente a rompere il senso di chiusura che domina ogni angolo.
Una delle esperienze più dure è quella che segna l’ingresso: la stanza delle perquisizioni. Un ambiente spoglio, freddo, apparentemente neutro. Ma è proprio l’assenza di empatia a renderlo traumatico. Qui si lascia tutto ciò che definiva una persona: abiti, oggetti, abitudini. In cambio, un kit essenziale: piatto e bicchiere di metallo, lenzuola, uno spazzolino. Un passaggio che segna la rottura con la vita precedente. Da quel momento si è dentro un sistema impersonale, dove l’identità viene ridotta a presenza da sorvegliare.
Le celle misurano circa nove metri quadrati. Pensate per due detenuti, spesso ne ospitano tre. La privacy è inesistente, anche il bagno è sorvegliato. Il controllo è costante. Il tempo si dilata, scorre lento, carico di pensieri. È in questo vuoto che si fanno i conti con sé stessi, con ciò che si è fatto, con ciò che si è perso.
Abbiamo avuto la possibilità di ascoltare storie vere, intense. Il primo incontro è stato nel mese di febbraio, in aula magna, a scuola. Davanti a noi, un uomo che ci ha raccontato la sua lunga odissea giudiziaria. Un solo anno di detenzione preventiva è bastato per prendere coscienza dei propri errori, ma il processo è durato altri 14 anni. Una vita sospesa, da ricostruire pezzo dopo pezzo. Le sue parole ci hanno colpito per la lucidità e l’umanità. Era evidente che dietro quella vicenda c’era molto più di un numero di matricola.
Il secondo momento, ancora più toccante, si è svolto invece dentro il carcere. Lì abbiamo conosciuto un detenuto ex tossicodipendente. Con una sincerità disarmante, ci ha raccontato la sua caduta: la droga, le rapine, la perdita totale di ogni cosa. Ma ci ha parlato anche della sua lotta quotidiana per non ricadere. Le sue parole non cercavano compassione, ma consapevolezza. “La dipendenza” ci ha detto “è una prigione più dura di questa”.
Durante l’incontro abbiamo avuto l’opportunità di ascoltare altre testimonianze, ognuna portatrice di un punto di vista diverso sulla realtà carceraria. Sono intervenute una funzionaria pedagogista, che ci ha parlato dell’importanza della rieducazione e del reinserimento sociale, una guardia penitenziaria, che ha condiviso le difficoltà e le responsabilità legate al mantenimento della sicurezza, e infine un’infermiera della struttura.
Pur riconoscendo il valore e la complessità dei ruoli di tutti gli operatori, è stato l’intervento dell’infermiera a colpirci più profondamente. Le sue parole ci hanno mostrato il lato più umano di un ambiente spesso percepito come freddo e distante. Con semplicità e autenticità, ha raccontato che cosa significa, ogni giorno, prendersi cura di persone che spesso vivono ai margini della società, portando con sé ferite profonde, silenzi pesanti e storie difficili da ascoltare. La sua voce è stata un richiamo forte al valore della cura e della dignità.
Quello che abbiamo visto e ascoltato ci ha messi di fronte a molte domande. Ci ha fatto riflettere sul senso della pena, sul valore del perdono, sulla possibilità di rinascere anche dopo aver toccato il fondo. Ci ha insegnato che dietro ogni errore c’è una storia. E che nessuno, mai, è soltanto il peggio che ha fatto.
Il carcere, allora, può diventare qualcosa di più di una punizione. Può essere un passaggio certamente difficile, ma anche carico di significato. Serve però il coraggio di guardare oltre le sbarre. E soprattutto di vedere le persone oltre le etichette.